domenica 6 febbraio 2011

L'inflazione del postmoderno

Il postmoderno lyotardiano mi sembra un abusato contenitore in cui viene posto tutto ciò che sembra non riducibile ad altra categoria, tutto ciò che sfugge alla possibilità di lasciarsi definire, compreso tutto ciò che appare nuovo e "perturbante" (già: "unheimlich". Sapevate che ognuno può costruire un'intera carriera sulla continua rifunzionalizzazione del concetto di 'unheimlich'?).

"Frammentazione" è la parola d'ordine. Bene. Vero è che la frammentazione è tipica della società dell'informazione basata sui nuovi (ormai relativamente nuovi) media. Ma non c'è mai stata frammentazione prima della fine del II millennio? Quanto avvenne (per fare un esempio) nell'Ellenismo non fu frammentazione? E quanto avvenne in quella che fu definita Tarda Antichità non lo fu a maggior ragione?

L'arte tardoromana era arte moderna a tutti gli effetti (Franz Wickhoff docet) e l'alta richiesta d'arte in quell'epoca fa parlare gli studiosi della Scuola Viennese di «Industria artistica tardoromana» (Alois Riegl docet ancora di più con un magnifico volume "omonimo", la cui parte più interessante è dedicata alla massiccia produzione di fibule). Se l'arte tardoantica fu moderna (compresi i rilievi degli archi di trionfo, di qualche colonna coclide e dei sarcofagi), se il passo successivo fu l'annullamento della terza dimensione - vedasi il fondo aureo nelle produzioni iconografiche bizantine (la quale abolizione significava anche abdicazione della corporeità dell'io) - se il passo ancora successivo fu il "postmoderno" dell'arte figurativa di Cimabue, perché dire che il postmoderno vero sia solo quello attuale? Solo in nome della infinita riproducibilità dell'informazione? Solo in nome della velocità imposta alla vita dai nuovi mezzi di comunicazione?

E perché non dire che Platone stesso ha già del postmoderno quando nel «Fedro» si scaglia contro la scrittura che porta il proprio prodotto testuale a rotolare lontano da sé, a non potere più garantirgli un'univocità interpretativa, a non potere più garantire quella sua integrità di significato e d'uso quale solo l'autore gli può garantire? Non è implicita in simile discorso la paura della riduzione del proprio io creante a favore dell'invasione di una molteplicità di io interpretanti? L'io unico e garante dell'autore si frammenta nella molteplicità degli io interpretanti.

E non è postmoderno il "symbolon" platonico (un essere che vive a metà: scisso, fratturato)? E l'androgino platonico? In quanto pago di se stesso, non tendente ad alcunché, ecc. ecc., non è allora postmoderno, se dovessimo stare a Lyotard. L'androgino (così "integro") è un tipico personaggio da grande narrazione metafisica (qualcosa mi dice che starebbe bene nell'idealismo, tipico di chi si pasce pago di osservare soltanto la propria pancia e di ragionare con il proprio ombelico): insomma è moderno e nulla più.

Capisco che forse ho banalizzato troppo e che ho volutamente ignorato (usando come schermo il capzioso quanto tendezioso richiamo alla Scuola Viennese) che il termine 'postmoderno' è stato coniato sulla base delle questioni cronologiche e terminologiche relative alle periodizzazioni tradizionali in cui viene - lana caprina o no? - suddivisa la Storia. Ma tale è stata la riflessione partorita da un input lanciato da un brillante intellettuale mio conoscente proprio a proposito dell'androgino platonico.

Ivo Flavio Abela

Giambattista Gigola, «Il simposio platonico».
Ca. 1790, Musei Civici di Arte e Storia, Brescia.

Nessun commento:

Posta un commento